sabato, Maggio 4, 2024

La vendetta dei 47 ronin di Kenji Mizoguchi: la recensione

Nella società feudale del 1701, in Giappone, il codice d’onore dei samurai sta lentamente tramontando, il suo rigore è assediato dal cambiare dei tempi e dall’insorgere di fenomeni prima impensabili come corruzione, nepotismo, corsa al potere.
Kira (Arashi Tokushizaburo), anziano cerimoniere dello shogun, viene ferito in un impeto di rabbia dal ricco e potente vassallo Asano (Arashi Yoshizaburo) che ha ascoltato, non visto, le critiche malevoli del vecchio al suo operato.
La condanna di Asano al seppuku rituale e la confisca dei beni si rivelano eccessive agli occhi di tutti, ma il giudice ha legami relazionali con Kira e le proprietà di Asano fanno gola, dunque il ricco vassallo sarà condannato e i suoi fedeli guerrieri saranno ridotti allo stato ignominioso di ronin, condizione dei samurai senza padrone nell’era Tokugawa (1603/1868), guerrieri in cerca di ingaggio come guardia del corpo del miglior offerente (su questo interessante capitolo della storia giapponese La sfida del Samurai (1961) di Kurosawa Akira e Hara-kiri (1962) di Kobayashi Masaki restano insuperati capolavori del genere).

Un patto di sangue fra i 47 samurai più fedeli per vendicare la disgrazia del loro signore porterà, due anni dopo, alla vendetta e alla morte di Kira. Nel 1941 Mizoguchi procede all’adattamento cinematografico de I 47 Ronin, una delle storie romanzate di samurai basate sull’evento dello shogunato Tokugawa che aveva dato vita a frequenti e amatissime performances teatrali kabuki e bunraku, al punto che la tomba di quei samurai, sepolti in una fossa comune vicino al loro ex padrone, è ancora oggi un luogo di pellegrinaggio per i giapponesi.

Il tema trattato corrispondeva inoltre all’esigenza della casa di produzione Shochiku di presentare il film come mezzo di propaganda durante la seconda guerra mondiale, per la gloria dell’ imperatore e l’edificazione delle masse (patriottismo, fedeltà ad un ideale, combattere e morire per il proprio signore, c’era tutto, era il film perfetto).

Un bilancio di grandi dimensioni permise al regista di realizzare la prima parte del film con grande accuratezza nella ricostruzione degli ambienti e con tempi di ripresa adeguati. La seconda parte ebbe invece vita travagliata, e per la carenza sopraggiunta di fondi e per il precipitare degli eventi. Infine, la pellicola uscì in sala una settimana prima dell’attacco a Pearl Harbor.

La scelta di regia caduta su Mizoguchi era stata singolare, essendo nota la distanza del regista dai moduli dell’epica e dalle scene di battaglia. Non si esclude pertanto, da parte sua, l’intento di mettere in atto, prendendone la regia, un sottile boicottaggio alla finalità propagandistica del film. Mizoguchi realizza infatti una mise en scéne dell’etica bushido molto personale, la trasforma in un’iconostasi, nell’accezione di Elémire Zolla, ” confine tra mondo visibile e mondo invisibile, luogo dove si manifesta una pittura sublime, in cui le cose sono prodotto della luce“.

Il regista trasfigura in immagini visibili, fatte di architetture di luci, movimento e suoni, l’essenza di una lotta interiore, il tormento di samurai colti in un passaggio della loro esistenza che impone scelte definitive come l’adesione rinnovata all’etica della loro casta, ultimo patto di sangue fondato su lealtà, fratellanza e onore. La geometria delle inquadrature e il lentissimo, a volte quasi inesistente movimento di macchina, li coglie nel loro ripiegamento su sè stessi, in un tormento interiore che, mentre li unisce al destino di tutti, li pone, soli, al centro della scena.

Campi lunghi, riprese dall’alto e continui piani sequenza compongono quello sguardo sull’ “insieme” che sempre Mizoguchi persegue, isolando nello stesso tempo l’individuo entro cornici di porte, muri o paraventi. Il suo perfezionismo meticoloso realizza una rappresentazione austera, classica, che nulla concede allo spettacolo brulicante, all’azione didascalica, al dialogo psicagogico.
Le sue sono soprattutto scene di silenzio. Film d’ azione, è soprattutto mancanza di azione. Le cerimonie del seppuku, il suicidio rituale del samurai, si svolgono dietro le quinte, l’attacco finale al castello e i momenti chiave dell’intreccio sono descritti da letture di relazioni o messaggi.

Asano, figura composta e vibrante nel suo kimono bianco, sparisce con il corteo che lo guida al supplizio e la porta si chiude dietro di lui. Al suo fedele seguace non è permesso seguirlo, e la macchina inquadra la scena solo dall’alto e in campo lunghissimo.
Il severo signore riapparirà quasi in forma di haiku, nella scena successiva.
Ai fedeli samurai ha lasciato la sua ultima composizione:

Più fragile dei petali
dispersi nel vento
vi offro il mio ultimo addio
salutando la primavera.

Ascoltare l’immagine”, così è possibile penetrare quella momentanea irriconoscibilità del senso che dal cinema giapponese spesso si sprigiona ai nostri occhi occidentali, abituati ad altro, eppure figli di una storia dell’immagine e del senso un tempo esclusivamente verbale e gestuale, una dialettica dello sguardo che dal teatro attico del V secolo ha attraversato lo spazio e il tempo.

Film di azione/non azione, Genroku chushingura può allora svolgersi, come sceglie di fare Mizoguchi, attraverso un sistema di segni che si manifestano usando la distanza e lasciando ampie zone d’ombra. Eppure in chi guarda si realizza, durante la lunga visione, un percorso di avvicinamento che continua ad operare, ininterrotto, anche oltre la visione stessa.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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